Oggi più che mai, il tema della montagna “che produce” sembra essere centrale nel quadro di quelle politiche territoriali che lavorano nella definizione del territorio alpino come uno spazio abitativo autonomo, in grado di ridisegnare gli equilibri territoriali e i sistemi di interdipendenza con le grandi aree urbane di fondovalle e di pianura.
Storicamente basato su un’economia di sussistenza, il territorio montano è stato, tra la fine del XIX secolo e gli inizi del XX secolo, uno spazio industriale e produttivo a tutti gli effetti, vero e proprio “giacimento” delle principali risorse (minerale, acqua, legno, ecc.) per le società urbanizzate. A ben vedere una breve parentesi, se la confrontiamo con la lunga durata del passato agrosilvo-pastorale, e con la condizione postmoderna di territorio “scenario” per la monocultura turistica.
Oggi che la questione di una nuova abitabilità dei territori extraurbani è tornata ad essere sulle agende di sempre più numerosi soggetti istituzionali e politici, tale dimensione produttiva della montagna riacquisisce uno spessore ed una centralità inedita.
Tornare a pensare al territorio montano come un luogo presidiato e vissuto significa oggi innanzitutto riscrivere le relazioni di interdipendenza socio-economica con le aree urbanizzate, cercando di garantire delle condizioni di vita e di lavoro sul territorio stesso, e ridare vita ad un sistema di relazioni virtuose con le città, controvertendo l’idea di luogo di consumo monodirezionale (estrattivo, ambientale, paesaggistico, turistico, ecc.) praticato nei decenni scorsi.
Se in alcune aree geografiche già da molti anni il modello di un’economia locale produttiva può considerarsi consolidato (si pensi al Vorarlberg, ai Grigioni o in Sudtirolo), in altri luoghi alpini questo approccio sembra oggi ritagliarsi timidamente uno spazio importante, soprattutto nel panorama di quelle valli che hanno per contro vissuto decenni di abbandono e spopolamento (si pensi ad alcune aree delle alpi occidentali e centrali italiane, piemontesi, lombarde e venete).
Due sembrano essere gli elementi caratterizzanti di questa tendenza. Da un lato un approccio, per usare un termine in voga, “non estrattivo” ma invece basato sul rafforzamento delle filiere locali: allevamento, agricoltura, viticoltura, produzione casearia, silvicoltura ma anche produzione industriale e artigianale basate sulla trasformazione di prodotti e risorse autoctone.
Dall’altro la riattivazione di reti lunghe, non strutturate secondo uno sfruttamento verticale delle risorse ma basate invece su di una “specializzazione orizzontale” che permetta la nascita di economie ed attività innovative capaci di ritagliarsi uno spazio privilegiato all’interno del mondo globale.
Le architetture contemporanee raccolte in questo numero sembrano rispondere in modo proattivo a queste nuove istanze, concorrendo in prima persona alla definizione di nuovi spazi per il lavoro, interpretando le necessità di nuove funzioni inedite per questo contesto e trasformandole in occasioni di innovazione progettuale e linguistica, come nel caso di stabilimenti artigianali e industriali, centri di ricerca e innovazione, poli di servizi.
O anche solo reinterpretando e attualizzando i modelli consolidati delle economie tipiche del mondo alpino come l’allevamento e l’agricoltura, ma sempre in un’ottica di valore d’uso del territorio e dei manufatti, ben oltre le posizioni estetizzanti e immobilistiche della patrimonializzazione dei decenni scorsi.
Editorial
Today more than ever, the theme of production in the mountain seems to be central in the framework of those territorial policies that define the Alpine territory as an autonomous living space capable of redesigning territorial balances and systems of interdependence with large urban areas, namely valleys and plains.
Historically based on a subsistence economy, between the end of the nineteenth century and the beginning of the twentieth century the mountain area was an industrial and productive space, an actual reservoir of primary resources (minerals, water, wood, etc.) for urbanized companies. If we look closely, this was a brief parenthesis compared with the long duration of the previous economy based on agriculture, silviculture, and livestock breeding activities and the postmodern condition of a scenic territory for the monoculture of tourism. Now that the issue of a new habitability in extra-urban areas is back on the agendas of a growing number of institutional and political actors,this productive dimension of the mountain regains unprecedented significance and centrality.
Going back to thinking of the mountain territory as an inhabited context today means rewriting the relations of socio-economic interdependence with urbanized areas. It also means trying to guarantee living and working conditions in the territory and revive a system of virtuous relations with the cities, thereby challenging the idea of a place for one-way consumption (extractive, environmental, landscape, tourism, etc.) practised in past decades.
While in some geographical areas the model of a productive local economy can be considered consolidated for many years (think of Vorarlberg, the Grisons or South Tyrol), in other ones this approach seems to be timidly gaining space today. This especially occurs in the context of those valleys that have experienced decades of abandonment and depopulation (think of some areas of the western and central Italian Alps, Piedmont, Lombardy and Veneto).
Two elements in particular seem to characterize this trend. On the one hand, a “non-extractive” approach based on the strengthening of local supply chains such as livestock farming, agriculture, viticulture, dairy production, forestry, but also industrial and artisanal production based on the transformation of indigenous products and resources. On the other hand, the reactivation of extended networks based on a “horizontal specialization” instead of a vertical exploitation of resources allows the emergence of innovative economies and activities capable of claiming a privileged space within the global world.
The contemporary architectures in this issue seem to respond proactively to these new demands. They contribute to the definition of new spaces for production, interpreting the needs for new functions for this context and transforming them into opportunities for design and linguistic innovation, as in the case of artisan and industrial establishments, research and innovation centres, and facilities. Also, they reinterpret the consolidated models of the typical Alpine economic practices such as livestock farming and agriculture, paying attention to the use value of the territory and its artefacts, moving well beyond the aesthetisation and stillness of the capitalization of the past decades.